italiano
L’avventura pittorica
<<(...) Le sue nature morte, le porcellane, i vetri, le figure, quelle costruzioni architettoniche con la Firenze più celebrata che fanno da fondale, come su un palcoscenico, i paesaggi sempre meno toscani, costituiscono un racconto lungo una vita e breve come un sogno. I quadri – perché, anche se su cartoncini, si ha la sensazione visiva o quasi olfattiva dell’olio – vivono di palpitazioni proprie che non lasciano spazio a casualità. In partenza il tratto è deciso, Ia costruzione coloristica completa, Ia struttura equilibrata e studiata nei particolari, il quadro è fatto, ma poi… Ecco, Lelia cancella tutto e ritorna col colore come se la spatola grattasse via l’impasto d’olio.
Poggia il suo pastello con la punta delle dita, lo sfuma e crea la stessa immagine ma con una modernità tale che di pastello non si dovrebbe parlare.
La frutta acquista una carnosità tale palpabile, i verdi si “avvellutano”. L’argilla bianca che il fabbricante ha messo nell’impasto della matita viene fuori e il bolo armeno che è nei rossi si sfuma nei gialli dando, appunto, una particolare sensualità alle nature morte. Le ciotole, che hanno la levigatezza degli anni, fanno da supporto a un trionfo della frutta che sfiora il rinascimentale.
Guardando, lì dove ci sono, quei fondali di Firenze, danno l’intima suggestione della città metafisica: sognata, lontana e dentro insieme all’anima dell’artista.
Il paesaggio pretende un discorso a parte. E qui pastello e olio diventano un sol discorso, anche se ho visto un “Fiori” ad olio che mi ha ricordato le profonde e grandi malinconie di Mafai. Il Paesaggio – dicevo – non è toscano, meglio è transfugo. Lelia sente la suggestione dei grandi paesaggisti della sua regione, la sacralità della terra, il lasciar libero il pensiero dinanzi a orizzonti di viti e di pioppi ma se ne sente prigioniera e li cancella, li riduce in incombenza, li sublima. Ecco nascere dei paesaggi che sono di una grande modernità, pur non perdendo l’atmosfera che lei, illusa cerca di scrollarsi. C’è come un destino: chi nasce al mare lo porterà sempre nell’animo e nella mente, chi ha sentito profumo di zolle non può veramente distaccarsene. Con l’olio arriva quell’impasto corposo di colore, materico oltre il voluto, il pollice non scivola via a creare campiture sfumate come con il pastello, è come interrotto il gesto dal fascino appunto della materia da domare.
L’avventura pittorica di Lelia Secci è appena iniziata, nonostante l’abbia maturata a lungo e quindi dentro sa e si muove con decisione. È un gioco fascinoso, che non nasce dal nulla e che prescinde da quanto abbia imparato dal suo maestro. Lei aveva tutto dentro. Ha impiegato del tempo a decidersi, e lo si vede dalla quantità di lavoro che fa dal ritmo intenso con cui lavora, dal coraggio di affrontare opere di grandi dimensioni, dalla necessità, anzi, delle grandi dimensioni. Ora, e forse non le sembrerà vero quanto vado dicendo, deve calmarsi e lavorare sul filo del sogno, perché il mestiere lo conosce, con una padronanza tecnica completa, e può dare a sé (prima di tutto) e all’arte dei prodotti di notevole pregio, come quelli che ha appena mostrato.
Emiddio Pietraforte
Le forme dell'idea
La persistenza monodica del processo pittorico di Lelia Secci attesta nel suo naturale frastaglio la tesi della affidabilità sul piano tematico e formale. Nel senso della sua validità estetica. Pastelli e dipinti a olio nascono da una esperta e paziente, nonché appassionata, elaborazione. Che, dalla prima campitura a macchie, giunge alla fusione cromatica, a un delicato mélange ottenuto col calore della mano. Questa stende, fonde i tocchi, obbediente alla vocazione formale dell’artista. Giovandosi di una sapienza restaurativi per l’ottenimento della vibrazione e tenerezza iconica che rende viva l’esecuzione dei lavori. Per questo la Secci non ama le litografie, perché la stampa blocca od obnubila la sensitività del pigmento, che solo può scaturire dallo strumento umano. Fiori e nature silenti — il tema dominante del repertorio artistico — nella loro delicata resa timbrica, sono il cosmo fantastico dell’immaginazione: umili e alti «personaggi » che sostituiscono nello spazio privato le figure della tradizione rinascimentale. Esemplari di un presente non più epicamente brillante nella figurazione contemporanea. Eppure si pongono come su un piedistallo quali preziose voci dell’animo. Non più, come un tempo, su piani e vallate, simbolo del possesso e del potere, ma su prospetti e particolari architettonici che gli fanno solenne corona. Locati in un clima di particolare intonazione, in un viraggio cromatico o in vignettature che li isolano dal concreto insignificante.
Sospesi in un’aria di astrazione dal fenomenico; tra il concreto e l’irreale, il visibile consistente e la vaghezza dell’appena percettibile. Come in una medietà di tenore apparentemente onirico: così labili e inafferrabili nella loro parvenza diafana. Il chiarismo è una tendenza estetica odierna un pò ovunque diffusa. Ma nella Secci non è accordatura di sé alla maniera moderna, sibbene una disposizione naturale, l’aspirazione a superare il realismo piattamente descrittivo. Per un realismo contemplativo, lirico.
Una rara fictio. Sempre l’arte è una fictio, una consolante fictio, e Dante lo ribadisce nella sua poetica dell’eloquenza volgare. Nasce dal pascoliano «cristallo» che è privilegio di chi ha il dono dell’arte, e si fa figura delle pulsioni interne, felicemente obbliganti. Così la nostra pittrice asseconda il suo patrimonio genetico, l’esigenza connatale, e la matura con l’abito dell’arte, cioè con l’esercizio diuturno e tenace. La matura, ripeto, dalla prime avventure pittoriche, di una sostanza ancora — seppure delicatamente — materica e densa, per approdare alle forme più recenti, decantate e sublimate; per attingere la diffusa e limpida vaporosità e diafanità degli ultimi esemplari. Secondo quel modulo che nella retorica poetica si definisce come anticlimax, una scala discendente di toni; dal denso al lieve. Digradante, è vero, ma più efficiente nel suo affrancarsi dalla compattezza delle prime stesure. Certamente fuori margine rispetto alla comune connotazione dei motivi naturali; fuori della «bella resa» comune, semplicemente enunciativa e generica, per una dizione distintiva, speculare della propria identità. In immagini che hanno il sapore di visioni, apparizioni, epifanie dell’animo; palesamento di ciò che per la Secci è la sostanza del vivere, del percepire e del comunicare. La forma allora si remotizza, si attenua quel tanto che basti per significare l’idea, la quintessenza dell’oggetto: attraverso l’oggetto stesso. Forma come medium (ripeto) tra il naturale e l’idea (diciamo pure platonica). E si potrebbe adottare anche il termine «metafisico», se non lo si intende nella moderna accezione storico-estetica, ma come travalicamento del concreto, del positivo. Così anche per i volti, i ritratti, nei quali si traduce ugualmente la simpatia per l’ineffabile, per la figura dell’angelo: ente tra il divino e l’umano, mediatore personale tra il Supremo e l’uomo. Ciò che consuona con una religiosità spiritualmente aperta in senso confessionale.
Questo il segreto accento della Secci. Se questo timbro sotteso sfugge, il senso delle figure e del tutto rischia di non essere compreso. Resta, certo, la finezza, la squisitezza della concezione e della resa, che è di estrema evidenza. Ciò che non è poco. Ma il significato più vero, semanticamente profondo, dell’insieme, resta ignoto. Con consequenze pregiudizievoli per la intelligenza piena dell’intera operazione pittorica.
Elvio Natali
La pittura di Lelia Secci è per molti aspetti sorprendente.
I fiori deposti davanti alle Architetture più significative di Firenze rappresentano quell’immaginario ottocentesco di Firenze “città dei fiori” che con il passare del tempo è scomparsa. O quasi: sicuramente sta scomparendo dalla memoria dei viventi.
La Secci con una grazia femminile che non indulge mai a stereotipi sentimentalistici riesce a sintetizzare, invece, due aspetti fondamentali della bellezza: i fiori, che sono delle armoniose architetture naturali, e le piazze, le fontane, i portici e i palazzi costruiti dall’uomo nel modo mirabile con cui sono stati realizzati a Firenze nei decenni del Rinascimento e del ‘600.
Tra questi elementi, l’architettura e i fiori, c’è una comune radice di bellezza, di eleganza e di misura che fanno parte del migliore carattere fiorentino dove la razionalità espressiva e la poeticità pittorica e letteraria si sono sempre coniugate.
La pittura della Secci segue questa tradizione. I ritratti dei personaggi qui esposti (lo storico dell’Arte Antonio Paolucci, il pittore Gianpaolo Talani, la sovrintendente al Polo Museale fiorentino Cristina Acidini e il presidente del Consiglio Regionale della Toscana Riccardo Nencini così come i ritratti dei musicisti: Uto Ughi, Giuseppe Sinopoli, Herbert Von Karajan) sono una prova molto significativa delle capacità sia pittoriche che psicologiche di Lelia Secci. Chi conosce o ha conosciuto i personaggi qui ritratti, coglierà subito dalla positura dei corpi, dallo sguardo, dal gesto dei musicisti una eco della loro vita. E qui la Secci da prova di saper “entrare” nei personaggi.
Miglior complimento non si può fare ad un pittore di ritratti umani: cogliere l’espressione dell’anima è la vetta più alta da raggiungere.
Gli olii e i pastelli di Lelia Secci sono la prova che questa vetta è stata raggiunta sia nei ritratti che nei fiori e nelle Architetture da lei dipinte.
Giovanni Pallanti